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Newsletter Finco n. 1/2024

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EDITORIALE: LA FORESTA PIETRIFICATA DELLE PARTECIPATE SPORTELLO BANCARIO NEWSLETTER MENSILE FINCO N. 01/2024

Più avanti pubblichiamo un’interrogazione presentata dal Senatore Misiani ed altri circa il programma governativo relativo ad alcune dismissioni di società partecipate. Il contenuto di tale interrogazione, ancorché ben articolato è, dal nostro punto di vista, assolutamente non condivisibile. Tale programma andrebbe anzi incrementato, anche a livello locale, dove molto spesso l’irriducibile persistenza delle controllate e/o partecipate costituisce un danno per la collettività, sottratte come sono per giunta, in modo significativo a livello locale, alla conoscenza dell’opinione pubblica. Sono anni, per non dire decenni, che non si riesce a sfoltire la foresta pietrificata delle società partecipate, molte delle quali: – hanno tutt’ora più membri nei consigli di amministrazione che dipendenti (circostanza che sarebbe in teoria vietata dalla normativa vigente); – invadono con scarsissimi benefici, anzi spesso con nocumento dal punto di vista dei consumatori, sfere in cui meglio potrebbero operare i privati in aree dove non si ravvisa alcuna necessità dovuta al cosiddetto “fallimento del mercato”. È davvero increscioso che lo stesso partito che fu protagonista a suo tempo – con la benemerita azione del già Ministro dell’Industria Bersani – di incisive aperture al mercato (basti vedere l’effetto favorevole agli utenti conseguito ad esempio nel settore della telefonia mobile rispetto ad altri settori) si erga adesso a corporativo baluardo avverso a tale azione. Le preoccupazioni espresse circa la collocazione sul mercato, ad esempio, del Gruppo Poste (quota di minoranza, non certo controllo) sono frontalmente contrarie agli interessi dei cittadini italiani che scontano un monopolio connotato da un persistente grave disservizio in quello che dovrebbe essere il ruolo per cui tale monopolio è consenti to, e cioè il servizio postale. Assistiamo infatti ad un cambiamento di pelle che ha tra sformato il gruppo Poste più in una banca che in una società di servizio postale onde mantenere i dipendenti altrimenti del tutto eccedenti ed a tutto discapito del servizio medesimo (del resto i portalettere sono meno di 30.000, gli altri 70.000 dipendenti in che sono impiegati, smistamento a parte?). Questo, è bene essere chiari, è un interesse dei Sindacati e delle corporazioni che go vernano in quell’ambito (il fatto poi che le Poste siano associate a Confindustria desta perplessità, ma forse non poi tanto…). Ancora una volta l’interesse dei comparabilmente pochi dipendenti prevale su quello della popolazione. Così come fu—vicenda recentemente tornata alla ribalta—per pressione dei Sindacati e consenso dell’Iri (Prodi, al tempo) e della Politica, che Alfa Romeo fu venduta a Fiat invece che a Ford con il risultato di sottrarre Fiat a qualunque concorrenza reale sul territorio italiano ed a un serio impegno “concorrenziale”, con il conseguente ulteriore risultato che il mercato italiano è ora dominato da marche straniere (è di una setti mana fa la notizia che Volkswagen ha superato per la prima volta Fiat nelle vendite in Italia); Fiat è stata incorporata in Peugeot ed ha sede legale nei Paesi Bassi ed in quel Paese è quotata in Borsa. Ancora peggiore, e potremmo dire senza vergogna, citare il caso , nell’interrogazione, del Monte dei Paschi di Siena (Mef al 39,2%), secolare banca pervasiva di una cittadina di 50.000 abitanti portata allo sfascio da una gestione politicamente caratterizzata al di là di ogni ragionevole dubbio e per la quale i contribuenti italiani continuano a pagare pegno, mentre non lo hanno pagato i politici responsabili di questo sconcio nel tempo. Gli interroganti si preoccupano anche della cessione di quote, non di maggioranza, quindi non di controllo, di società quali Enel (un oligopolista, ma sarebbe meglio chiamarle nei fatti monopolista, che condiziona tutta la politica elettrica italiana) e Leonardo: non vediamo le controindicazioni. Il punto è aprire al mercato, non privatizzare, ed è farlo bene, ottenendo, più che risorse economiche, anche un incremento dell’efficienza che quasi sempre avviene (a parte qualche famoso caso sempre citato…). Ci saremmo risparmiati, ad esempio con Alitalia, miliardi (una decina) a carico dei contribuenti italiani – ed in questo caso vale ricordare che non ci sono soldi pubblici ma ci sono quelli di quel 25% dei contribuenti italiani che pagano le imposte. Ci si aspetterebbe semmai che gli Interroganti pressassero il Governo non al fine di impedire le collocazioni sul mercato di cui sopra ma per stimolarlo a liberalizzare le resistenti ed imbattibili sacche corporative sorde a qualunque modernizzazione, sempre con dannosissime conseguenze per i cittadini, quali ad esempio tassisti, ambulanti ma soprattutto balneari (anch’essi aderenti a Confindustria …). Ci sono poi settori interi, ad esempio quello dei servizi di nettezza urbana, che sono ontologicamente sottratti alla concorrenza – con le conseguenze che vediamo – nonostante le periodiche e meritorie puntualizzazioni in merito da parte dell’Antitrust. Quello che ci vuole in Italia è più concorrenza e se si può rivolgere una critica alla Legge (annuale!?) sulla Concorrenza da poco licenziata è quella casomai di essere troppo “tiepida” anche se, quanto meno per l’anno in corso, ha visto la luce, contrariamente a quanto avvenuto negli anni precedenti, salvo uno.

È dunque un esercizio un po’ troppo facile e “furbastro” quello di criticare la linea politica del Governo quando parla di tagli, ventilando che potrebbero esserne colpiti settori “sensibili” quali in primis sanità ed istruzione e poi, allo stesso tempo, avversare una delle poche vie per cercare di conseguire risorse ed abbattere il mostruoso debito pubblico ma turato nei decenni ed oggi pari a 2850 miliardi, cioè il 141% del PIL (in particolare dalla riforma del Titolo V della Costituzione che attraverso le nuove potestà regionali lo ha fatto esplodere).

La Corte dei Conti paventa dei rischi? Fa il suo mestiere. Gli introiti potrebbero essere minori di quelli attesi e lo Stato incasserebbe meno dividendi (sempre che vi siano utili, il che non è certo, vedi caso ILVA ancorchè non quotata…). A parte il fatto che alcune notevoli anomalie sono provocate proprio dall’aspettativa di dividendi, non è che per questo ci si debba fermare, occorre anzi profondere maggiori sforzi per collocare al meglio e con trasparenza questi asset sul mercato. E magari pensare ad una incisiva valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico attraverso la reazione di una società “veicolo” da quotare in borsa e che racchiuda tale patrimonio, le cui azioni dovrebbero esse re acquistate dagli italiani.